“THE LOBSTER” E ALTRE RIFLESSIONI SULL’ESSERE SINGLE

921

Mi sono più o meno casualmente imbattuta, in questi giorni, in un film assolutamente geniale che, ambientato in una sorta di mondo parallelo e/o in un imminente futuro, ci mostra come sarebbe una società in cui essere single fosse un reato. Il film in questione è “The Lobster” del regista greco Yorgos Lanthimos che ha vinto il premio della critica al Festival di Cannes.

Ho pensato di parlarne, non solo perché mi è piaciuto ma anche perché l’articolo che ho scritto la scorsa volta (e che campeggiava qui, prima di questo), trattava già, guarda caso, di questi temi e si intitolava, infatti, “Vita dura anche in ufficio per le donne single”.

Ora, va detto che il film tratta la condizione dell’essere single in un’ottica ben più ampia, che concerne sia donne che uomini, in rapporto ad una società rigidamente strutturata sulla coppia e sulla famiglia, che al di là delle esasperazioni paradossali, non è poi così lontana dalla nostra. Il “reato di singlitudine”, così come concepito nel film, prevede l’arresto o la deportazione in una clinica, che all’apperenza sembra un normale ed innocuo hotel dove, però, si è obbligati a trovare l’anima gemella o, in alternativa, si verrà trasformati in un animale a propria scelta.

Il protagonista, interpretato da un Colin Farrell piuttosto appesantito, se ne va, infatti, in giro con un cane che presenta a tutti come suo fratello. Si intuisce ovviamente che la bestiola, prima di diventare un cane, fosse un umano. I single che approdano all’hotel, per lo più vedovi come il protagonista sono trattati alla stregua di esseri più o meno inutili che devono sottostare ad un processo di rieducazione per poter desiderare nuovamente di tornare ad avere una vita di coppia. Vengono loro assegnate piccole stanzette un po’ buie e tristanzuole e devono seguire regole e protocolli svilenti e punitivi. Proprio l’ideale, verrebbe da pensare, per tirarsi su di morale dopo un lutto!! Ben diverso invece il trattamento riservato a coloro che riescono a fidanzarsi.

Le neo-coppie (la cui compatibilità viene stabilita su basi assurde legate per lo più a malesseri o a difetti fisici, se non addirittura a malattie vere e proprie) sono subito trasferite in comode e lussuose stanze e possono godere di innumerevoli altri privilegi, compreso un tour di quindici giorni in crociera su uno yact altrettanto lussuoso, per testare l’effettiva compatibilità.

Il metodo però sembra funzionare perché, pur di sottrarsi alle privazioni e riprovazioni riservate ai single – nonché all’eventualità di essere trasformati in un animale (il protagonista sceglie l’aragosta) – quasi tutti gli ospiti dell’hotel si ritrovano a mentire, fingendo inclinazioni caratteriali o malesseri di cui non soffrono pur di rendersi, almeno apparentemente, compatibili con altre persone, ovviamente tra quelle presenti in loco. Uno di loro arriva a simulare epistassi spontanee, che invece si procura volutamente, sbattendo il naso contro qualsiasi superficie abbia a potata di mano.

Naturalmente, come in tutti i regimi dittatoriali che si rispettino, ci sono ribelli e dissidenti che, in questo caso, sono i single fuggiti dalla clinica. I poveretti vivono nei boschi costantemente braccati dagli ospiti della clinica stessa. Un’altra regola imposta agli ospiti della clinica è, infatti, quella di  cacciare, muniti di fucile con proiettili narcotizzanti, i fuggitivi che, una volta catturati, saranno trasformati in altrettanti animali. Il premio per la cattura dei ribelli consiste nell’avere più tempo a disposizione per trovare l’anima gemella allontanando, al contempo, il momento della fatidica trasformazione. 

I rimandi alla dittatura fascista degli anni 30/40 sono, almeno per il pubblico italiano, inevitabili e forse anche scontati, visto che la famosa tassa sul celibato che Mussolini aveva introdotto negli anni ’30/’40, aveva anch’essa un intento di riprovazione sociale, seppure lo scopo ultimo di incentivare i matrimoni fosse finalizzato ad incrementare le nascite, garantendo così un ricambio generazionale sempre disponibile all’arruolamento militare. 

Stando ad alcune interviste del regista, però, la sua critica sembrerebbe maggiormente rivolta alla società in cui viviamo. Una società, la nostra, che sottopone gli individui ad aspettative e pressioni legate al “doversi sposare, almeno ad una certa età, e  mettere su famiglia. Il tema trattato nel film, ovvero la necessità di “accoppiarsi” a tutti i costi, rappresenta dunque una metafora delle pressioni sociali che tuttora l’individuo si ritrova a dover sopportare e che in molti casi causano un inevitabile senso di frustrazione o inadeguatezza. Viviamo, di fatto, immersi in una cultura per cui lo status di single non è considerato una scelta ma un ripiego e dev’essere quindi, per forza, considerata una condizione transitoria. I single generano sospetto e le persone si sentono autorizzate a giudicarli negativamente o ad escluderli.

Una scena mi ha però colpita più delle altre. Riguarda una serie di due “teatrini” o “siparietti” recitati su un vero e proprio palcoscenico da un uomo e una donna. Il fine di tale pantomima è, ovviamente, quello di educare o ri-educare i singles presenti nell’hotel e mostrare loro quali siano i vantaggi di vivere in coppia. Il primo di tali “teatrini” vede inizialmente in scena solo lei, seduta ad un tavolo mentre fa finta di mangiare, simulando,ad un certo punto, un soffocamento da cibo andato per traverso. Ma ecco arrivare la controparte maschile per reinterpretare da capo, insieme a lei, la stessa scenetta. La variante, in questa seconda versione, vede entrambi seduti al tavolo e consiste nel fatto che lui si precipita a salvare la sua partner, praticandole la famosa manovra di Heimlich che le consente di rigettare il cibo rimasto fermo in gola e di evitare la morte per soffocamento.

Poi si passa al secondo. Sul palco c’è un uomo, non quello di prima, che se ne sta un po’ in disparte. Quando arriva la protagonista femminile, che si mette a passeggiare, lui la segue, poi la blocca da dietro e, insieme, simulano uno stupro. Anche in questo caso la scenetta viene ripetuta una seconda volta, da capo e, anche questa volta, arriva sul palco l’uomo che già aveva interpretato “il salvatore” nella primo “siparietto”. Ovviamente la nuova variante consiste nel fatto che il tizio in disparte, vedendo che la donna è in compagnia, si guarda bene dal seguirla e importunarla.

Morale della favola: stare in coppia per una donna è assai più desiderabile che vivere da sola, o almeno dovrebbe esserlo, perché così sarà più protetta e potrà evitare molestie e aggressioni. O forse potrebbe essere, ancora peggio, quella per cui, in fondo è inutile cercare di migliorare la società in cui viviamo, affinché diventi più civile e meno violenta (soprattutto nei confronti delle donne), meglio sarebbe, invece, se le donne si mettessero l’anima in pace e si rassegnassero a viver come nell’ ‘800, in cui una signora “per bene” non poteva uscire di casa se non accompagnata.

Una morale del genere è perfettamente in linea, ovviamente, con la filosofia dittatoriale immaginata nel film, ma a pensarci bene, non è poi così distante dalla nostra e dalla condizione in cui viviamo oggi, noi donne.  Pur vivendo in uno stato democratico che non ci impedisce certo di uscire di casa da sole, dobbiamo però sempre fare molta attenzione a non passeggiare in luoghi isolati o bui, perché il rischio di essere aggredite o violentate è sempre elevato. Dobbiamo fare attenzione, se non siamo in compagnia, a rientrare a casa di notte, ma anche a non vestirci in modo da attirare l’attenzione maschile, perché altrimenti c’è sempre qualcuno pronto a dire che in fondo “ce la siamo cercata”…

Articolo precedenteI MACCHIAIOLI A PAVIA
Prossimo articoloFOLIAGE IN IRLANDA