PANDEMIA E PUBBLICITA’

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Sul mutamento dei nostri stili di vita in conseguenza del Coronavirus molto s’è detto e scritto.

Uno degli effetti poco esaminati indotti dalla pandemia è stato, mi sembra, la sua incidenza sulla comunicazione, sul “tono del messaggio”. Non mi riferisco qui alla comunicazione/informazione specificamente indirizzate al fenomeno, ma a quella che ha per target la società in generale e a quella indirizzata al mercato dei consumatori, la pubblicità. La prima è stata tutta un’antologia di messaggi positivi all’insegna dell’empatia collettiva e della sua promozione, spesso raccontata da testimoni autorevoli, quelli che la lingua del marketing chiama opinion maker: influencer e blogger della Rete, star dello spettacolo, campioni dello sport, personaggi influenti della galassia sociale e via elencando: “siamo con voi (uniti si vince)”.

La pubblicità – quasi tutta, quasi sempre – invece ha smorzato i toni del linguaggio utilizzato e contemporaneamente ha modificato il suo contenuto. La comunicazione pubblicitaria si è aggiornata in relazione alla “indisponibilità all’acquisto” degli utenti e dei consumatori di beni prodotti e servizi. Prodotti sono forzatamente usciti dalla scena, rimpiazzati in certi casi da messaggi e proposte inediti di prodotti beni e servizi new entry. Gli spot e gli annunci istituzionali, di marca, di prodotto – hanno perso l’aggressività dell’invito a comperare “subito”; in queste settimane la quasi totalità dei messaggi, palesemente o meno, è indirizzata al “poi”, a un futuro palingenetico anche se temporalmente non definito. Non di rado, i messaggi pubblicitari – accennando al “come eravamo” – ci propongono una visione del futuro meno edonistica dei precedenti, una specie di invito collettivo a credere in un nuovo eden, tanto immancabile quanto indistinto. La comunicazione ha cambiato voce.

E poi, fateci caso, il coronavirus ha indotto gli italiani a esporre il bianco rosse verde in misura molto maggiore rispetto a quando gioca la nazionale di calcio e, adesso, quasi tutti i messaggi hanno un denominatore comune: il tricolore nazionale assurto come in passato (Risorgimento, Grande guerra, imprese coloniali, regime fascista) a simbolo dell’Italia “che ricomincia” dell’Italia “che ce la fa”. Durante l’impietoso lockdown la bandiera, abbinata a quotidiani e riviste, è stata venduta in edicola come le mascherine anticontagio e il gel sanificante.

Considerazione finale e un po’ amara: se l’invito a sentirsi nazione coesa e italiani “virtuosi” viene testimoniato da chi produce e vende beni e servizi invece che da famiglia e scuola, gli educatori istituzionali al senso civico (atteggiamenti mentali, credenze, valori, miti, visioni del passato, interpretazioni del presente, aspirazioni del futuro), non c’è da stare troppo allegri.


Foto di Ursula Schneider da Pixabay

  

 

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