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LA PANDA BLU

Non è notizia nuova ma in questi giorni, rinnovata: è sempre più dilagante in Europa l’astensione elettorale. Già in Italia e in Grecia, ora anche in Francia e Spagna. Fenomeno recessivo o ciclico? Strutturale? Contingente? Fisiologico? Lascio la diatriba agli esperti e agli abitudinari del Bar Sport.

Ciò che qui mi preme notare è che, comunque si colorino le sue motivazioni di base, dal qualunquismo al disgusto, si tratta di un mero fenomeno statistico, che interessa i sociologi, i politologi e gli osservatori del costume collettivo, mentre, al di là delle apparenze e finché almeno sia imparzialmente distribuito fra tutti i partiti, sembra preoccupare solo marginalmente i politici. In fondo è giustificato che sia così.

Il nostro sistema elettorale, basato sul voto esplicito e certificato, non tiene né potrebbe tenere alcun conto delle opinioni, dei tanti o dei pochi, non espresse col voto. La posta in gioco di un’elezione è la totalità del potere di gestione dello Stato e il meccanismo elettorale che la legittima è un sistema esclusivo e autosufficiente, che non ammette, né potrebbe farlo, margini di manovra all’esterno.

Sotto il profilo della legittimità non c’è nessuna differenza se un parlamento o magari un capo di governo risultano da una votazione a cui hanno partecipato il 100, il 60 o il 25% dei potenziali votanti. Piaccia o no, le cose stanno in questo modo, come i nostri Soloni non si stancano di ripetere. E tuttavia… Tuttavia sotto un altro profilo (sostanziale, etico, civile, o semplicemente numerico?) non c’è dubbio che la rappresentatività di tali parlamenti e governi non è per nulla la stessa.

Rappresentanza. L’inerzia della parola fa tornare in mente la vecchia massima del parlamentarismo inglese: no taxation without representation, niente tasse senza una rappresentanza, che, se non fraintendo, significa che il diritto di tassare presuppone che alla decisione partecipino i rappresentanti dei tassati. E allora come la mettiamo?

E’ chiaro che non si può toccare il sistema fiscale, essendo funzione di quella totalità della gestione dello Stato che non può dipendere dal mutevole andamento dell’affluenza alle urne. Però una parte, sia pure piccola, del gettito delle tasse non è destinata alle necessità concrete del Paese ma serve a finanziare la politica, a oliarne l’esercizio da parte dei suoi rappresentanti: emolumenti, indennità, gettoni, rimborsi, servizi, comodità e privilegi concessi a politici e parapolitici in carica, eletti e nominati. Spese di rappresentanza, appunto.

Ebbene, non è irragionevole immaginare che questa parte, solo questa, sia sottoposta a un principio di proporzionalità, nel senso che, a fronte di votazioni a cui abbia partecipato il 100% degli elettori, tali gratifiche saranno gioiosamente godute per l’intero, ma se l’affluenza al voto è stata, metti caso, del 25%, allora esse diminuiranno in proporzione e, nella fattispecie, si divideranno per quattro.  Non più un portaborse a testa, ma uno dovrà servire per quattro, e così il telefono, il computer, l’ufficio, l’addetto stampa. Si continueranno a rimborsare i cosiddetti pranzi di lavoro, ma non tutto il pasto, solo la prima portata e un quartino di vino. Per gli spostamenti in treno basterà una seconda classe da pendolari, e per i congressi di partito un cinema di periferia allestito dal geometra locale.

Può darsi che in questo badget “proporzionato” le fin troppo vituperate mutande verdi ce la facciano ancora a rientrare, ma certamente non le cene all’aragosta, e nemmeno le scorte di Suv, specie se contromano. Anche i corazzieri in servizio al Quirinale subiranno un taglio e potranno essere reclutati fra gente di statura inferiore al metro e sessanta. E per l’auto di rappresentanza di presidenti di Regione e, perché no?, del Consiglio, ci si dovrà accontentare di una Panda. Una Panda blu.

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