CIBI E BEVANDE TRA MODA E SALUTE

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La moda ìmpera anche in ambito alimentare. Così succede che, in certi periodi, si trovano ovunque (ma proprio ovunque) quei due o tre ingredienti osannati al momento che poi, con l’andare del tempo, scompaiono del tutto, o quasi, dalle tavole anche perché, dopo un po’, non se ne può davvero più.

Negli anni ’80, tanto per fare un esempio, se non aggiungevi ai piatti di portata, un po’ di rucola, non eri nessuno. Ma anche con il sesamo non si scherzava.

Poi è stata la volta del sale rosa dell’Himalaya. Per non parlare del periodo in cui, l’unico formato di pasta ammissibile erano i paccheri, che tutti i cuochi del momento, riempivano “con la qualsiasi” e schiaffavano in forno.

Ora invece vanno per la maggiore le spezie come lo zenzero e la curcuma (che già usavamo da mo’ nel curry senza che alcuni di noi lo sapessero), nonché le bacche di goji e i semi di chia, che ormai aromatizzano o insaporiscono anche il gelato, la cioccolata, il te, le insalate (e di questo passo, magari anche la pizza).

Intanto però si sta già facendo strada un’altra tendenza, quella della jicama, un tubero del Messico simile ad una rapa ma più dolce che, come succede sempre all’inizio, non è ancora facilissimo da reperire, ma tra un po’ ce la ritroveremo ovunque.

Lo stesso vale per le bevande, soprattutto per l’ora dell’aperitivo: dal Bellini alla pesca (sempre nei famigerati anni ’80) al Sidecar. Per non parlare del Vemouth.

Di solito la novità è rappresentata, o da qualcosa di esotico, che non appartiene alla nostra cultura o, all’esatto contrario, da qualcosa che è così radicata nelle nostre tradizioni, al punto tale che ce ne siamo dimenticati…perché magari la bevevano i nostri nonni… Ma poi qualcuno, improvvisamente, si ricorda che ripescare le cose d’antan, fa figo …ed è cosa fatta.

Come appunto nel caso del Vermouth (o Vermut) che è nato a Torino nel 1786, per iniziativa di Antonio Benedetto Carpano. Questi, ispirandosi ai vini e ai liquori all’assenzio in voga tra Francia e Germania, creò un prodotto che si distinse, però, dagli altri per l’aggiunta di zucchero e che divenne, dapprima una sorta di status symbol e poi – fino agli anni ‘60/’70 del ‘900 – una vera e propria consuetudine. Negli anni ‘60/’70 lo bevevano un po’ tutti, più o meno in tutti i bar, i circoli e le bocciofile,  ora invece è assurto a tendenza e lo ordinano giovani hipster di belle speranze che si riversano in centro, dopo il lavoro (o le lezioni all’università), per il rito dell’apericena.

Più o meno è successo così anche al Barbera. Mio nonno lo beveva a tavola quotidianamente (d’altronde una volta tutti potevano più o meno permetterselo) e ora, invece, è diventato quasi un bene di lusso.

La cosa non cambia molto neanche se parliamo di scelta dei ristoranti. In particolare per quelli di cucina etnica. Purtroppo per me, che non amo il pesce crudo, tra le più in auge, resiste quella giapponese, forse perché mangiare pesce crudo scondito permette ai fanatici del look di tendenza, di mantenere la linea e di potersi strizzare in jeans e tubini attillatissimi.

Almeno così si spiegherebbe come mai il sushi stia continuando a rimanere sulla cresta dell’onda nonostante i NAS scoprano, un giorno si e l’altro no, ristoranti giapponesi che conservano il pesce senza rispettare i criteri minimi di sicurezza. Per non parlare poi del fatto che le varietà acquistate da molti di questi ristoranti è quasi sempre di dubbia provenienza.

Parliamo in particolare di quelli che propongono la formula “all you can eat”, che consiste nel pagare un prezzo fisso per potersi abbuffare, però, quanto si vuole o comunque, quanto si riesce.

Il problema di chi sceglie questo tipo di ristorazione non è neanche quello di rischiare di star male subito dopo aver mangiato (non sempre succede) ma piuttosto quello dei danni a lungo termine dovuti all’ingestione di sostanze tossiche usate per far sembrare il pesce più fresco e appetibile. A tal proposito sta proprio circolando sui social, in questo periodo un video-denuncia in cui si vede un processo di contraffazione dei gamberi provenienti da paesi asiatici. I gamberi in questione, prima di essere messi in vendita, vengono iniettati con una sostanza gelatinosa affinché sembrino più grossi e più freschi. Peccato che, come si specifica nel video stesso, nessuno sappia la composizione della sostanza in questione. Quello che si sa è che sono in molti ad usarla perché, ovviamente la concorrenza è spietata per cui se comincia uno, devono poi farlo anche gli altri, per poter rimanere sul mercato.

Naturalmente però, anche in ambito culinario, ci sono “gli intramontabili” o gli evergreen (come dir si voglia). Tali sono, sempre per fare un esempio, la CocaCola e la Nutella , su cui ovviamente bisognerebbe scrivere un pezzo a parte, anche se però, un paio di cose, visto che mi sono inoltrata a parlare di rischi per la salute, vorrei aggiungerle.

Sebbene intramontabili, questi due capisaldi dell’alimentazione adolescenziale di quasi ogni parte del mondo, non hanno più, in realtà, il sapore che avevano in origine. Gli ingredienti d’altronde, sono cambiati negli anni.

Per poter contenere i costi di produzione, non solo hanno dovuto cambiare la composizione ma anche la lavorazione e la miscelazione del prodotto per cui se, ad esempio, una volta la Nutella sapeva davvero di nocciole e cacao, oggi il suo sapore ricorda si quello della cioccolata ma di sicuro non quello delle nocciole. Anche perchè di nocciole ormai non ce n’è che l’ombra. Prova ne è che sono costretti ad aggiungere olio di palma (anche se, stando ai loro spot pubblicitari, di alta qualità). Certo è che le vere creme artigianali di nocciola e cacao (che per essere buone necessitano, per altro, di ben poco zucchero) hanno un altro sapore ma, rispetto alla Nutella, costano ovviamente un patrimonio.

La Nutella però, oltre a costare meno, piace anche di più perché, nel frattempo, il consumatore medio si è assuefatto ai sapori artificiali e industriali, per cui non è più in grado di apprezzare i cibi genuini come ad esempio il cioccolato fondente con alta percentuale di cacao e poco zucchero.

Ai bambini ormai piacciono molto di più le merendine o le creme al sapore di cioccolato rispetto al cioccolato vero e proprio oppure, in alternativa scelgono il cioccolato al latte dove la percentuale di cacao è minima e il sapore dipende più dagli aromi artificiali o dal latte in polvere dolcificato.

Siamo comunque talmente assuefatti ai cibi artificiali che alcuni adolescenti, abituati dall’infanzia a mangiare solo “formaggi di plastica” (tipo sottilette o formaggini), quando assaggiano una vera toma o una vera fontina, ne rimangono quasi disgustati.

Le sottilette e i formaggini d’altronde non sono vero cibo, come ci ricorda la famosa dietista statunitense Beth Warren, autrice del libro “Living real life with real food”,  il più delle volte sono solo un assemblaggio di grassi del latte,  proteine del siero, emulsionanti e coloranti alimentari, ovverosia un miscuglio di scarti pressati e trattati con veleni gustosi che li rendono appetibili.

Ma gli alimenti industriali che, se proprio non sono nocivi, di fatto non apportano alcun nutrimento, sono molti (bisognerebbe dedicare ad essi un articolo a parte), in ogni caso, fortunatamente per noi, se assunti occasionalmente fanno almeno bene all’umore.

 

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