ALGOCRAZIA

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Ci sono parole nuove, e parole nuovissime. Parole nuove che invecchiano presto e scompaiono. E parole nuove con un futuro di immaginabile immortalità. In questa ultima categoria rientra il sostantivo femminile algocrazia.: “Con il termine algocrazia – ci informa l’Accademia della Crusca -viene descritto un ambiente digitale di rete in cui il potere viene esercitato in modo sempre più profondo dagli algoritmi, cioè i programmi informatici che sono alla base delle piattaforme mediatiche, i quali rendono possibili alcune forme di interazione e di organizzazione e ne ostacolano altre”. È, come si dice in gergo specialistico, un calco dall’inglese algocracy ‘potere degli algoritmi’, formato da algo, abbreviazione informale di algorithm ‘algoritmo’, e da -cracy ‘-crazia’. Originariamente, tanto la forma inglese che il calco italiano “algocrazia” facevano riferimento all’effetto che le tecnologie informatiche hanno sull’evoluzione del lavoro; il termine si è poi esteso a indicare più genericamente l’importanza degli algoritmi nella società, talmente in crescita da suscitare motivate preoccupazioni, timori connessi all’uso attuale dell’Ai, l’intelligenza artificiale.

Il problema è complesso. I rischi paventati dal suo sviluppo sono rilevanti e comprendono l’informazione, la cancellazione del ceto medio e della democrazia (La Lettura, 25 giugno). Per il vero, il problema della algocrazia non è nuovo. Nel luglio 2018, su la Repubblica Riccardo Antimiani scriveva: “Gli algoritmi ci tengono in pugno. Non è più solo questione di multinazionali con profitti miliardari, denuncia il Garante italiano della Privacy. È altro, è algocrazia. Dittatura dell’algoritmo. Pensi di stare navigando liberamente sulla Rete, e invece è il motore di Google che ti fa vedere la parte che ritiene interessante per te. Credi di lavorare per un’azienda di consegne a domicilio, invece sei il dipendente di un algoritmo”.

Stanno trasformando la nostra vita? Può essere. Solo che non ce ne accorgiamo.

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