FINALMENTE UN FILM CHE PARLA DI TERZA ETÀ CON HUMOR E SENZA TRITI LUOGHI COMUNI

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“E se vivessimo tutti insieme?” domanda uno dei personaggi all’inizio del film, buttandola lì come se fosse una boutade.  A pronunciare la fatidica frase è Claude (interpretato dall’attore francese Claude Rich), uno dei cinque personaggi protagonisti del film che si intitola appunto “E se vivessimo tutti insieme?”, ancora per alcuni giorni nelle sale cinematografiche. Si tratta del film franco/tedesco di di Stephane Robelin, presentato quest’estate al Festival cinematografico di Locarno. E’ la storia di due coppie e un single, amici da sempre che, invecchiando, cominciano ad avere qualche problema nel gestire il tran-tran quotidiano. Sono autonomi, attivi, piuttosto allegri, con la voglia di fare cose, soprattutto combinare pranzi a casa di uno o dell’altro, ma Claude è sofferente di cuore, a rischio infarto, per cui gli tocca fare i conti con un figlio invadente che vorrebbe vederlo ricoverato in una clinica residenziale, tanto per stare tranquillo e Albert (interpretato da Pierre Richard) sta cominciando a perdere la memoria con momenti, anche se non frequenti, di vuoto assoluto.  Sua moglie Jeanne (interpretata da Jane Fonda ancora in splendida forma) lo aiuta come può, ricordandogli  soprattutto le medicine che deve prendere, ma non le resta molto da vivere, a causa di un male incurabile. La sua preoccupazione imminente diventa pertanto “Che ne sarà di lui dopo?”.  Così pian piano la boutade  si trasforma in realtà e tutti e cinque si ritrovano a vivere insieme nella grande casa di famiglia in cui Annie (Géraldine Chaplin) ha sempre vissuto con il marito Jean (Guy Bedos), con tanto di giardino e una piscina in via di costruzione. Il bello di questo film è che tocca con leggerezza e umorismo argomenti sulla terza età che di solito sono tabù o di cui si parla per lo più in termini di luoghi comuni triti e ritriti. Intanto la sessualità e il desiderio fisico che persiste, in molti, nonostante il decadimento fisico.  Se i principali tabù della nostra società, sono la morte e la vecchiaia, è senz’altro quest’ultima a far più paura. Il corpo anziano, in una civiltà come la nostra (vitalista e giovanilista) è considerato come un “vuoto a perdere”, una realtà scomoda che è preferibile rimuovere. Altro tema toccato nel film è la pena infinita che comporta il dover vivere nell’atmosfera asettica di una clinica o un ricovero per anziani, dove la media dei residenti è molto avanti con l’età, al punto da non poter più rappresentare una compagnia per chi, invece, sia ancora lucido e autonomo.  Il panorama del decadimento e dello sfacelo della maggior parte dei degenti induce gli altri alla depressione, e a loro volta li conduce ad un decadimento precoce, e all’”inebetimento” passivo prima del tempo. Presi dallo sconforto di vedere Claude, rinchiuso dal figlio in una clinica (seppur di lusso), tra degenti che sembrano vegetali e altri che danno di matto, i protagonisti del film decidono dunque di dar vita ad un vero è proprio co-housing anche se un po’ improvvisato.  Avete presente quelle realtà abitative costituite da stanze private e spazi comuni da condividere? Ecco questi sono i co-housing che in Italia sono ancora purtroppo realtà più uniche che rare mentre all’estero stanno prendendo piede ovunque. Negli States e nell’Europa del Nord sono addirittura la norma, ormai da diversi anni. Ne esistono di tanti tipi (non solo per anziani) e tutti più o meno si basano sul concetto di condivisione di spazi e risorse, che permettono anche una maggior socializzazione. Quelli per gli anziani offrono convenzioni per servizi lavanderia e stireria, pulizie e catering, a prezzi contenuti nonché con strutture mediche ed ospedaliere. Negli Stati Uniti esistono addirittura interi mini-villaggi, abitati esclusivamente da anziani. In questi luoghi possono affittare o comprare appartamenti solo persone da una certa età in sù e sono super organizzati, con palestre (o piscine), sala cinema, e sale per lo svago e gli hobby.  Ma su questo argomento ci sarebbe da scrivere pagine e pagine, rischiando di allontanarci dal film in questione. Un film, nel contempo divertente e commovente, su cui mi ha fatto riflettere, in particolare, una battuta. A pronunciarla è Albert, quando scopre che sua moglie, malata da tempo, ha deciso di rifiutare le cure mediche (che probabilmente le allungherebbero la vita di poco). Lui non tenta di convincerla a curarsi, come avverrebbe (e come avviene sempre) nei film americani (non ce n’è uno, di cui io abbia memoria, in cui non ci sia un familiare che tenti in modo deciso e – alla fine anche prevaricatorio – di convincere il malato di turno a seguire le terapie mediche, per quanto dolorose o devastanti). “In fondo ha diritto di scegliere” si limita, invece, a dire Albert. Per questo motivo, tra gli altri, consiglierei la visione di questo film anche e soprattutto alla categoria medica.

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