“E’ tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore: il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura, gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile”. Sono le parole di Gep Gambardella, il protagonista dell’ultimo film di Paolo Sorrentino, “La grande bellezza”, magistralmente interpretato da Toni Servillo. Sono le parole intorno alle quali si muove tutto il film. Un film di grande bellezza, e di grande squallore, anche. Quello squallore che si alterna, per tutta la durata della pellicola, agli incostanti e (neanche tanto) sparuti sprazzi di bellezza e di poesia. Il tutto sottolineato da una fotografia di grande suggestione, che insieme alle luci, alla scelta dei luoghi e delle musiche, ai flash back onirici e ad uno svariato numero di situazioni surreali, rende questo film unico. Un film che, come hanno definito alcuni critici “vive delle stesse contraddizioni che racconta”. La trama quasi non esiste. Si passa da una festa ad un’altra e da un chiacchiericcio vacuo ad uno banale, nella Roma notturna e nottambula dei “tiratardi”. Molti, quasi tutti, lo hanno paragonato a “La dolce vita” di Fellini, e in parte ci sta, ma a me ha ricordato anche (e non poco) il “Ventre dell’architetto” di Peter Greenaway. Lo definirei, anzi, quasi un mix, molto ben scecherato, tra i due, con qualcosa in più che ovviamente è lo stile unico di Sorrentino. Uno stile distaccato, tipico dell’osservatore esterno che, pacatamente si limita a mostrare ciò che lui stesso vede, senza giudicare. Di giudicare, d’altronde, non c’è bisogno. Le immagini e le situazioni si commentano da se. Creano fastidio, commozione, insofferenza, piacere, repulsione e attrazione, quasi contemporaneamente. Ciò che meglio incarna e rappresenta la nostra epoca di vanità fatua e cafona, compiaciuta di se stessa, è la scena surreale della lussuosa sala d’aspetto del medico estetico, dove ogni persona è un numeretto, che viene man mano chiamato, per tre secondi netti (il tempo per un’iniezione di botox) e per sborsare, subito dopo la modica cifra di 700 Euro. Tutti in fila, tutti al prezzo di 700 euro, come in una batteria di polli d’allevamento. E poi una carrellata di personaggi assurdi e di macchiette (e qui siamo appunto in piena “Dolce Vita”) come la nana, che la sera si divide “tra un brodino e una scopata, tanto sono due cose calde”, la pseudo intellettuale-mamma cinquantenne alternativa che si riempie la bocca di bei discorsi tanto pomposi quanto inutili, il cardinale ossessionato dalla cucina e dalle ricette che si spazientisce se qualcuno gli pone quesiti o dubbi di carattere mistico o religioso, la spogliarellista un po’ sfatta ma ancora sexy che va ai party con abiti attillatissimi e ultra trasparenti, la belloccia un po’ vacua che si annoia perché di mestiere fa “la ricca” e la cicciona cocainomane interpretata da un’irriconoscibile Serena Grandi. Tutti a “ballare sulla bellezza, a sommergerla di rumore, a insozzarla di volgarità”. Il fil rouge che tiene insieme il film è il protagonista stesso che passa da una festa a uno spettacolo da un evento bizzarro ad un allestimento artistico, o pseudo-tale (poiché di mestiere fa il giornalista) e realizza interviste a personaggi del mondo dell’arte e dello spettacolo, che hanno, però, ben poco di interessante da dire. E l’epilogo sembra proprio questo. Che in fondo nessuno ha più niente di interessante da dire.
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