BARBIE 2.0 – DA MODELLO DI BELLEZZA STEREOTIPATA A ICONA DI UN NUOVO FEMMINISMO IN ROSA

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Dopo essere stata incolpata per decenni di aver incarnato i peggiori stereotipi di genere e devastato l’autostima di milioni di bambine con la sua irraggiungibile perfezione estetica, la Barbie diventa ora l’icona di un nuovo modello di empowerment femminile, se non di un vero e proprio femminismo in rosa. A rilanciarne il mito è il film, campione d’incassi, diretto da Greta Gerwig (tuttora in programmazione nelle sale cinematografiche), in cui a prendere le sembianze della bambola più famosa del mondo, è la bellissima Margot Robbie.

Barbiecore” é il termine che è stato coniato nel frattempo per definire l’estetica ispirata alla bambola e il fenomeno che fa di lei e del rosa, nuove icone del movimento. Come si spiega dunque questo fenomeno?

La storia di questa bambola spiega ad esempio, la scrittrice Elena Miglietti “è anche quella di tutte le donne che hanno inventato il suo immaginario, storie di carriere che sono esempio di imprenditoria femminile e che hanno attraversato un secolo e un millennio in cui gli stereotipi sono cambiati anche grazie a una signorina di plastica capace di pilotare un aereo, andare nello spazio, vincere medaglie olimpiche, guidare un camper …”

Il rosa è per altro già da un po’ di tempo, associato alla ribellione femminile: lo hanno usato le Pussy Riot e le partecipanti alla marcia su Washington anti Trump con i “pussyhat”. Siamo dunque di fronte ad un nuovo femminismo? Un femminismo 2.0, che si è rinnovato con le nuove generazioni, diventando più irridente e ironico? Stando al film, che risulta anche divertente – senza per altro essere stucchevole – sembrerebbe di si.

Al contempo, la Gerwig, nota per le sue produzioni indipendenti, ha confezionato una pellicola rivolta ai cinefili, in cui le citazioni si sprecano. Una su tutte quella dedicata a “2001 Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick, in cui a prendere il posto dei primati arrabbiati è però questa volta, un gruppo di bambine che – stufe di giocare alle mamme accudenti – cominciano a scaraventare furiosamente a terra i loro vecchi bambolotti. In sottofondo ovviamente, il noto crescendo dell’opera di Strauss, “Also sprach Zarathustra”.

La trama è abbastanza semplice: in quanto simbolo di perfezione, Barbie (non a caso è il modello stereotipo) vive in un mondo spensierato e felice, finché in lei non cominciano ad annidarsi paure ed angosce tipicamente umane, che la costringono ad interrogarsi sul senso della vita. Spinta dunque da pensieri di morte e da un’irrefrenabile bisogno di piangere, mai provato prima, decide di sbarcare nel mondo reale, restandone però decisamente spiazzata poiché quest’ultimo si rivela essere l’esatto contrario di quello a cui lei è abituata. A Barbieland, infatti, ad avere il potere sono le ragazze, mentre i maschi, come Ken, sono per lo più decorativi.

Nel mondo reale invece la nostra protagonista, si ritrova subito a dover fare i conti con sessismo e molestie al punto da essere costretta a stendere un tizio che cerca di importunarla, assestandogli un bel pugno. Dopo varie divertenti peripezie che non starò a descrivere (per non spoilerare troppo), Barbie decide di tornare nel suo mondo dove si ritrova a riflettere su come in quello reale, per le donne ci siano solo due possibilità: soccombere al lavaggio del cervello o rassegnarsi ad essere considerate brutte e strambe.

Il messaggio che passa è interessante: se il mondo reale potesse somigliare un po’ di più a quello di Barbie – se cioè le donne coltivassero come a Barbieland, un po’ più di sorellanza e di autostima – la vita per loro forse sarebbe più facile. Tutte, infatti a Barbieland si sentono belle indipendentemente dal peso, dall’etnia e dal giudizio o dal parere della componente maschile.

Nel film anche Ken sbarca insieme a Barbie, nel mondo reale, rimanendo affascinato dal sistema patriarcale e finendo per importarlo a Barbieland, con il classico “dividi et impera”. La coesione tra le Barbie e le donne reali consentirà di rimettere le cose a posto, riportando l’originario status quo. L’intento del film però non è quello di fare il processo al povero Ken bensì al sistema che tende a dividere le donne e a far disperdere loro energie e sforzi in futili tentativi di competere per un uomo, per l’estetica, la carriera etc.

Se c’è un messaggio positivo per le tante ragazzine che accorrono a vedere il film, è proprio questo: è possibile creare un mondo in cui il genere femminile faccia rete, senza gelosie o invidie reciproche, ognuna coltivando la propria autostima e contribuendo a rafforzare quella delle altre, ma anche aiutandosi o spalleggiandosi a vicenda nel lavoro e nella carriera, invece di porsi sempre in competizione su ogni fronte?

 

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