RIPARARE I DANNI DELLA PANDEMIA PER TORNARE UMANI

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“Credevamo di essere onnipotenti e sbagliavamo” scrive Susanna Tamaro nel suo ultimo saggio che, non a caso si intitola Tornare umani (Solferino Edizioni).

“Credevamo di aver capito tutto”, specifica già nella quarta di copertina “e non avevamo capito niente. Gli anni della pandemia hanno costituito un grande reset, per tante certezze e tante convinzioni, e il risultato è un trauma collettivo di cui oggi viviamo le conseguenze”. L’elenco dei problemi causati da pesanti restrizioni e provvedimenti sarebbe lungo: gravissimi contrasti sociali, sensazione di incertezza e ansia nonché patologie psicologiche diffuse in forme acute soprattutto tra i giovani.

In effetti, sui disagi di bambini e ragazzi (in età soprattutto adolescenziale) avevo già scritto lo scorso febbraio, quando molti professionisti dell’ambito psichiatrico e psicologico stavano cominciando a lanciare l’allarme. Uno studio britannico del Mental Health and Young People Survey, per citarne uno, contava un adolescente su quattro, in Italia e nel mondo, con sintomi clinici di depressione e uno su cinque con disturbi d’ansia. Per non parlare del numero dei suicidi e dei casi di autolesionismo.

Per un po’ di tempo i media hanno trattato il problema anche se in modo piuttosto superficiale, ma dopo un po’ di tempo sono passati ad altro, smettendo di occuparsene del tutto o quasi. Ora poi che il mondo è catalizzato su altre emergenze (la guerra, la crisi economica, le bollette da pagare …), i traumi subiti dai giovani non interessano più.

Fortunatamente però, ci sono ancora validi professionisti che continuano ad occuparsene, cercando al contempo di riportare a galla la questione o almeno di sensibilizzare quante più persone possibili. Una di queste è Patrizia Scanu, psicologa e docente liceale di Scienze umane, che ha recentemente scritto un saggio dal titolo Oltre la scuola e l’homeschooling – Riparare i danni della pandemia ed educare per il mondo che verrà (edito da Il leone verde).

Mai titolo, a mio avviso, fu più azzeccato. Soprattutto se si pensa che sono ben poche le persone, ma anche le istituzioni, che abbiano ragionato in termini di ‘riparazione’ dei danni. Almeno fino ad ora. Meno che mai, la scuola pubblica.

Il libro presenta, sulla base di un’analisi dei bisogni dei ragazzi vittime del disastro, una proposta di intervento educativo in due fasi, la prima appunto riparativa e la seconda trasformativa, da realizzare nell’ambito dell’istruzione parentale per gli allievi della scuola secondaria inferiore e superiore.

Ma cosa si intende con il termine Istruzione parentale? La scuola parentale (o homeschooling) é una forma di istruzione che nasce dal desiderio e dall’impegno dei genitori di trovare un’opzione diversa dalla scuola statale. La scuola parentale rappresenta quindi un’alternativa alla frequenza delle aule scolastiche. Consiste dunque in un gruppo di adulti che si riuniscono e mettono in piedi un progetto, in una dimensione comunitaria. È una scelta che non si fa individualmente, ma che prevede un nucleo di persone in grado di identificare e di mettere su carta un progetto educativo con una specifica identità.

Dovremmo, per riprendere le parole della Tamaro, “ritrovare un filo di Arianna in ciò che abbiamo vissuto e usarlo per ricucire la trama della nostra convivenza, se vogliamo sopravvivere come specie. E questo filo è fatto di pensiero e di resistenza: alla disinformazione, alle tentazioni del controllo sociale, alla deriva del transumanesimo che minaccia innanzitutto la nostra medicina. Una concezione aberrante secondo cui le persone non sono unioni irripetibili di corpo e anima, ma solo oggetti da trattare, da riempire di pillole e vaccini, fino all’estremo di sopprimerle quando non più funzionali”.

In un’intervista recentemente rilasciata al programma Rai “Quante storie”, ha spiegato, infatti, come non si possa fare di tutta l’erba, un fascio. Non si possono mettere sullo stesso piano ad esempio i bambini e i ragazzini che vivono in città, tra smog e cibi industriali, con quelli che abitano in luoghi montani dove respirano aria buona, mangiano cose genuine e giocano all’aperto in qualsiasi stagione e condizione atmosferica. Questi ultimi avranno probabilmente un sistema immunitario più temprato e resistente. Di fronte a tali diversità (questa è solo un esempio tra tante), occorrerebbe fare dei distinguo.

“La grande furia irrazionale che ha colto la società, anche persone insospettabili” dice ancora la Tamaro “ha divorato tutti gli spazi del pensiero e della riflessione complessa. Ma quando una società diventa preda dell’irrazionalità è una società che va verso derive molto pericolose”.

Con la pandemia, ci siamo trovati, infatti, di fronte ad un’improvvisa “irruzione della morte”. Un’irruzione così clamorosa che ci ha colti impreparati e che ci ha “scombinato le carte”. Pensavamo probabilmente di essere al sicuro, in una società ipertecnologica e apparentemente super-protetta, e questo ci ha consentito di prendere, con l’andar del tempo, le distanze dal concetto di fragilità umana. Abbiamo cioè rimosso l’idea stessa che la morte ci appartenga.

Dover fare improvvisamente i conti con queste realtà rimosse ha creato un’immediata reazione di panico irrazionale che ha condotto ad una sorta di pensiero manicheista. O,  per citare ancora la Tamaro, di “semplificazione del pensiero”. Anche la narrazione ufficiale, in effetti, ha accuratamente evitato ogni dibattito, ogni dubbio e ogni riflessione che fosse anche solo un minimo più articolata. Da un certo punto in avanti si è cominciato a ragionare per obblighi. Punto. Se provassimo a ripercorrere – come ha fatto lei – tutte le vicende (le chiusure, le limitazioni, i vaccini, le spaccature famigliari), cominceremmo a vederne invece, sempre più chiaramente, tutte le incongruenze e i paradossi.


Foto di Elisabetta Fea

 

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